René Guénon et la tradition hindoue
RENAUD FABBRI
RECENSIONE

Autore: Gianni Confienza

Il testo riprodotto in questa pagina è un estratto dell'articolo pubblicato nel numero 112 della Rivista di Studi Tradizionali.

Il testo integrale, completo delle note, è disponibile con l'acquisto del numero corrispondente della rivista.

... Il sottotitolo del libro: Les limites d’un regard (i limiti di una veduta) sembra quasi auto-ironico, perché è subito evidente che i limiti, che questo giovane universitario specializzato in filosofia della religione e in filosofia politica vorrebbe attribuire a R. Guénon, stanno invece tutti dalla sua parte. Si pone, come tanti altri, in quella categoria di scrittori con pretese esoteriche, che sfruttano l’opera di R. Guénon per poi cercare di contestarla avanzando opinioni individuali, al fine di procacciarsi uno spazio, favorire una carriera accademica, pubblicare, porsi a capo di qualche gruppo, così come normalmente fanno i filosofi.

Studioso, a suo modo, di induismo, ma anche praticante e legato a qualche scuola induista, deve innanzitutto contestare R. Guénon sul tema del ricollegamento alla tradizione indù da parte degli occidentali, ricollegamento ritenuto da quest’ultimo non del tutto impossibile in linea teorica, ma quasi impossibile in pratica, per ragioni tecniche e comunque inadatto alla natura degli occidentali stessi.

I “supporti” che R. Fabbri sceglie per il suo tentativo di contestazione nei confronti di alcuni punti fondamentali dell’opera di Guénon sono principalmente tre: i suoi studi accademici sull'induismo (a proposito dei quali insiste sulla necessità dell’erudizione) unitamente alle sue frequentazioni di certi ambienti induisti; le teorie di Eric Hermann Voegelin, filosofo, sociologo, politologo tedesco in base alle quali fornirebbe delle giustificazioni di tipo psicologico - psicanalitico - sociologico per quelle che chiama “tendenze millenariste” di R. Guénon, avanzando addirittura una teoria su di una nascita piuttosto recente della metafisica; i continui paragoni con Frithjof Schuon, suo preferito, che definisce: «senza alcun dubbio il principale continuatore di Guénon».

Basterebbero queste premesse per ritenere inutile una recensione e cestinare semplicemente questo libello; e tuttavia pensiamo che, per delle ragioni che vedremo, valga la pena di soffermarvisi, considerandolo come sintomo di certe particolari correnti che in questo momento si stanno diffondendo.

Una costante, comune a tutta la categoria alla quale l’autore appartiene, è quella di tentare continuamente di giustificare le idee esposte da Guénon con l’influenza di tale o tal’altro autore, di certi avvenimenti, certi incontri, di certe situazioni ambientali, cercando di ridurre i suoi insegnamenti al livello di filosofia, per sminuirne la portata etichettandoli in qualche modo. Anche un professore come Henry Corbin viene preferito a Guénon, sotto certi aspetti, per le sue considerazioni sul «mondo immaginale», corrispondente al «sottile», che Guénon avrebbe “trascurato” considerandolo «il campo di predilezione della contro-iniziazione».

Chiaramente in quest’ultima affermazione è dello psichismo inferiore che si tratta, ma le «modalità sottili» sono considerate sia in senso inferiore che in senso superiore; nell'individualità umana vi sono anche modalità superiori che già sfuggono al tempo. In ogni caso della sfera sottile si parla diffusamente riguardo alla costituzione dell’essere umano e del mondo manifestato in generale. Certamente l’importanza del sottile è del tutto relativa dal punto di vista metafisico che è il vero obiettivo dell’opera di Guénon, e dal punto di vista «operativo» non avrebbe senso dedicare troppa attenzione al dominio del sottile - al quale appartiene l’anima (an-nafs) - in una via che persegue la sua la sua estinzione (al-fanâ) come condizione imprescindibile per la realizzazione spirituale.

Certamente chi si mantiene all'esterno non può trovare quelle indicazioni che provano come l’opera di R. Guénon sia frutto di una vera realizzazione spirituale di altissimo livello ed anche di una speciale funzione.
Quella di Corbin può essere interessante sotto qualche aspetto, ma si tratta comunque di semplice erudizione: qualcosa di utile vi si può trarre ma dovrà essere estrapolato e giustamente interpretato perché sia utilizzabile. Che dire poi degli elogi per F. Schuon, che avrebbe avuto «il compito di analizzare in dettaglio i mezzi concreti che devono essere messi in opera nella via» e la cui opera si presenterebbe «come un indispensabile complemento operativo a quella di Guénon» (!). Questo giovane, che avrebbe la pretesa di criticare Guénon su Gli stati molteplici dell’essere, non è nemmeno in grado di distinguere una via regolare dalle stravaganze eterodosse più evidenti.

F. Schuon era stato del tutto sconfessato da Guénon, da un certo momento in poi, dopo che aveva incominciato a manifestare certi squilibri, che andarono poi sempre aggravandosi, e il gruppo da lui fondato in Svizzera aveva perso ogni regolarità dal punto di vista rituale.

Da parte sua Schuon arrivò a contestare apertamente R. Guénon tanto che dovette abbandonare la collaborazione con Études Traditionnelles. Trasferitosi in America poté poi più agevolmente dedicarsi alle sue eccentricità. Vi sono peraltro delle ragioni particolari che spingono l’autore del libro ad apprezzare particolarmente F. Schuon e sono le (presunte) «visioni mariane» di quest’ultimo e le teorie che vedono nella Vergine un Avatara.
R. Fabbri osserva infatti, con tono di rimprovero, che Guénon avrebbe ridotto « l’islam al sufismo e il sufismo a Ibn Arabi ... l’induismo al Vedanta e il Vedanta all'interpretazione particolare che ne dà Shankara», ed ancora, «Guénon accordava in fine molto poco posto ad una delle grandi tradizioni religiose dell’India, il culto della Dea».

Questo culto interessa invece particolarmente R. Fabbri che si dà come fondatore di un «Aditi Center for the study of the Hindu Tradition» il quale «è posto sotto l’alto patronato della dea Aditi».
Come si precisa: «Nella letteratura vedica antica, Aditi è il nome della Madre degli Dei.
È allo stesso tempo una persona divina alla quale il devoto può rivolgersi ed il simbolo della coscienza universale e illimitata che il metafisico riconosce nel fondo di se stesso. Il culto di Aditi trova il suo prolungamento nell'induismo contemporaneo attraverso il culto tantrico della Shakti sotto le sue differenti forme (Pârvatî, Kâlî, Tripurasundarî, ecc.»).

Se l’adesione alla tradizione Indù da parte dell’autore è dunque di questo genere è comprensibile la sua “sintonia” con Schuon e con le sue “apparizioni” della Vergine. Questo non giustifica minimamente le critiche rivolte a Guénon il cui insegnamento, perfettamente in linea con quelli di Muhyiddîn ibn `Arabî e di Shankaracharya (quello vero, da non confondere con i suoi più o meno tardi successori) è il più essenziale ed elevato.

Studiare il Vêdânta sui commenti di Shankaracharya non è affatto limitativo in quanto furono scritti da un essere realizzato e investito di quella precisa funzione, quindi tutt'altro che una «interpretazione particolare».

Ma veniamo ad altri punti fondamentali su cui si avanzano riserve. Secondo una tecnica collaudata che abbiamo già visto applicare da altri “contestatori”, l’autore inizia i vari capitoli con affermazioni nette e decise che poi nel prosieguo non riesce affatto a giustificare, ma che possono rimanere nella memoria del lettore per il loro carattere lapidario:
«E tuttavia, l’opera di Guénon è fratturata dall'interno, divisa contro se stessa persino al rischio della schizofrenia». Questa “terribile” frattura consisterebbe poi nel fatto che egli fonda l’insegnamento dottrinale sulle dottrine indù e nella vita sceglie il sufismo! Dopo aver detto che Guénon avrebbe «contribuito, almeno modestamente, all'impianto dell’islam in Europa, promuovendo nella sua scia una forma d’islam intellettuale e mistico» (!) nella sua confusione mentale arriva a dire che questo Islam sarebbe: «en porte-à-faux avec les courants salafistes et wahhabites».

Il termine porte-à-faux, che letteralmente significherebbe “mensola”, in senso figurato indica qualche cosa in posizione falsa, traballante: come si fa a riuscire a scrivere insulsaggini del genere?
Oltre a non aver capito nulla dell’opera di Guénon bisogna non sapere affatto che cosa sono le correnti wahhabite e salafite:
sette caratterizzate da eccesso di letteralismo e fanatismo, nemiche acerrime di qualsiasi idea di esoterismo, ispiratrici di politiche di persecuzione contro le organizzazioni iniziatiche islamiche.

Pomposamente annuncia di voler esaminare delle presunte discordanze con le dottrine indù «cominciando dai principi, dalla dottrina metafisica e dalla concezione che Guénon si faceva dello stato supremo e incondizionato».
Dopo un periplo in cui fa il riassunto di quello che dice Guénon senza trovare nulla di concreto, aggiungendo ogni tanto qualche critica inconsistente o di stile, secondo lui lui troppo astratto o non dotato della stessa “flessibilità” (souplesse) di quello di Shankara, alla fine, l’unico punto su cui chiaramente si dichiara in disaccordo è la negazione, da parte di Guénon, della possibilità della reincarnazione, che invece secondo lui è normalmente possibile (!).

Altro argomento contestato da R. Fabbri è quello della «Tradizione primordiale»: con discorsi contorti e contraddittori cerca di respingere quanto esposto da R. Guénon sull'argomento, evidentemente per potersi allineare ai Maestri con i quali può essere in contatto e che non possono essere esenti da un certo esclusivismo.
Da un lato ammette che: «non si potrebbe negare che i rappresentanti dell’ortodossia indù, vale a dire i grandi Shankaracharya, professano la loro fede in una rivelazione originaria, la shruti antica quanto i giorni. Le grandi religioni del mondo appaiono loro come altrettanti rami distaccati dal Sanatana Dharma.

La perdita del senso dell’unità primordiale non sarebbe essa stessa che una delle manifestazioni del processo di decadenza che ha condotto l’uomo nelle tenebre della quarta età, il kali yuga». D’altro lato afferma recisamente: «Contrariamente a ciò che i tradizionalisti lasciano intendere, in generale, i maestri ortodossi non sono universalisti e i maestri universalisti (quegli stessi che, in India, attirano delle vere coorti di Occidentali inebetiti) non sono ortodossi».
Il problema non ha alcuna ragione di porsi poiché Guénon mantiene il discorso dottrinale al massimo dell’universalità, ma specifica, come tutti dovrebbero sapere, che nella pratica di una via iniziatica ci si integra in una determinata tradizione e se ne seguono fedelmente tutte le prescrizioni.

Le riserve di R. Fabbri nascono soprattutto dal non volere abbandonare le teorie degli storici delle religioni e certe tendenze filosofiche e socio-politiche, condizione questa pressoché irrinunciabile per chi voglia mantenere una posizione negli ambienti accademici; ma ne risulta un miscuglio inaccettabile, una sorta di cerchiobottismo filosofico.

Così, per sostenere una teoria filosofica e storicistica moderna, introduce una sorta di «evoluzionismo » nella tradizione sostenendo che la metafisica, quale R. Guénon la illustra (la dottrina dell’Unità o della Non-dualità) sarebbe nata solo in un’epoca cosiddetta “Assiale” corrispondente al periodo fra l’VIII e il II secolo a.C. .«...la visione metafisica che è sua [di Guénon] quella di una realtà divina concepita come radicalmente trascendente rispetto al mondo empirico, ha preso forma per la prima volta nell'Età Assiale».
Prima vi era «un universo ritualista nel quale il Sacro era simboleggiato sotto forme essenzialmente compatte e cosmologiche». La transizione verso le concezioni metafisiche avverrebbe pressapoco all'epoca dell’affermarsi del Buddismo, procedendo un po’ «a tentoni», «nella misura in cui si opera una interiorizzazione dei riti e che gli dei dell’antico pantheon perdono della loro numinosità».

Se l’autore ammette, come detto prima, che ci troviamo nell'oscura quarta età, com'è possibile che solo in questa compaia la dottrina della non-dualità, mentre prima vi sarebbe stato solo un “pantheon di divinità che rappresentavano principi cosmologici ed erano strettamente legate a quello che chiama il “mondo empirico”?
E la «Liberazione» com'era possibile in mancanza di una comprensione metafisica?

A dispetto di qualunque logica, Fabbri insiste a dire che con «il rifiuto di ogni idea di evoluzione... si condanna a rendere inintelligibile il divenire effettivo della coscienza religiosa indiana dai suoi primi inizi». Ci voleva dunque l’evoluzionismo per capire la Tradizione?! E non si può ammettere la «Tradizione primordiale» perché è un’idea troppo universalistica per i maestri ortodossi!
Vi sarebbero ancora molte altre contraddizioni da rimarcare, ma dobbiamo restare nei limiti di una recensione.

Una frase teniamo tuttavia a sottolineare perché illustra i motivi per i quali ci siamo così dilungati:
«In pratica noi abbiamo potuto notare che i maestri indù contemporanei sono tanto più disposti a trasmettere la loro scienza iniziatica a degli stranieri quanto più essi vedono con dispiacere gli indiani discostarsi dalla propria tradizione».
Da parte di certi esponenti della tradizione indù - che non saranno semplicemente i soliti finti guru cui eravamo abituati - vi è evidentemente una tendenza a considerare superate certe barriere di casta e di natura individuale e a concedere ampie aperture agli occidentali che poi svolgono azioni di propaganda in Europa.

Nel nostro N° 110 abbiamo segnalato un altro caso, questa volta italiano, assai problematico. Non possiamo certo emettere giudizi su questi «maestri indù contemporanei» (che comunque sono numerosi e diffondono i loro messaggi e le loro immagini servendosi diffusamente di Internet), ma possiamo quanto meno osservare quello che producono i loro allievi, e questo non ci rassicura affatto sui risultati di quelle aperture, concesse interpretando in modo assai elastico le regole del Sanatana Dharma.

Se, come abbiamo detto all'inizio, R. Guénon non esclude totalmente la possibilità che un occidentale possa integrarsi nella tradizione indù, va precisato che tale possibilità è limitata ad eventuali rarissimi casi di individualità che presentino qualificazioni iniziatiche tali da superare i limiti imposti dalla necessità dell’appartenenza ad una delle tre caste superiori. Nel caso invece delle “aperture agli occidentali” di cui è questione, che tenderebbero ad una diffusione dell’induismo in Occidente (il “Centro Aditi” del Sig. Fabbri sta aprendo una nuova sede in cui si terranno “delle conferenze e degli stages di yoga”), si assisterebbe alla formazione di una «categoria» simile ad una parodistica pseudo-casta.

Ma non è tutto qui:
la parte peggiore non è ancora il libro in se stesso ma la prefazione, appostavi da Jean-Pierre Laurant, il quale riesce ad essere astioso nei confronti di Guénon ancora più di quanto già non lo sia nei suoi libri, in particolare nell'ultimo di cui ci siamo occupati nel nostro numero precedente.

Appoggiandosi alle tesi di Fabbri ma mettendoci molto del suo solito “bagaglio”, Laurant dà sfogo alla sua ostilità verso Guénon con affermazioni del tipo: «Il primo scoglio è venuto dagli effetti perversi della seduzione della sua scrittura...».«Il secondo scoglio venne dalla necessità affermata, ben tardivamente, di un exoterismo tradizionale, vale a dire di una pratica religiosa », e avanti di questo passo con i soliti ingannevoli ritornelli che va ripetendo da cinquantanni.

Qui però troviamo un’affermazione particolarmente significativa: a proposito di un suo lavoro con cui sottoponeva l’opera di Guénon alla sua “critica storica”, presentato a François Secret, aggiunge:
«Anni più tardi, François Secret ci disse, dopo aver sostenuto e difeso fermamente il nostro lavoro, che infatti detestava Guénon e la sua pretesa di omni scibili. Questa è l’osservazione di metodologia obiettiva più convincente che noi abbiamo mai sentito».

Ecco finalmente, dichiarato “nero su bianco” ciò che accomuna questa gente: detestare Guénon!
Una certa sensazione di fastidio perché Guénon potrebbe dare l’impressione di “voler sapere tutto” non può che essere la più superficiale e quella che di primo acchito può provare chi abbordi i suoi testi essendo completamente digiuno della materia. Tale sensazione scompare del tutto appena ci si rende conto del reale contenuto e si incomincia a comprendere. Ovviamente molti non comprendono affatto, così che nella loro mente si ingenerano le reazioni più diverse, ma quella di sviluppare un’attività ostile che si identifica con la propria professione per tutta la vita è veramente molto particolare!

Ed è un fenomeno veramente paradossale che una persona la quale non ha mai fatto altro che cercare di infangare R. Guénon e la sua opera e che dovrebbe essere considerata più un nemico che un avversario, si sia introdotta nella «Fondazione René Guénon», ne sia diventata uno dei membri più attivi e sia oggi il principale autore di certi «annexes» e di altre note che accompagnano delle edizioni cosiddette “definitive”, edizioni che sicuramente sarebbero state vietate dallo stesso Guénon.

Concludiamo con alcune brevi frasi di quest’ultimo, tratte da una recensione e che bene si adattano anche al caso presente:
«Quello che è francamente divertente, è il rimprovero finale di “non trovarsi mai là dove l’avversario vorrebbe ingaggiare il combattimento”; ci s’immagina dunque che la dottrina tradizionale acconsenta a riconoscersi degli “avversari” e che possa abbassarsi a dei “combattimenti” o a delle discussioni qualsiasi?

Sono quelle delle strane illusioni:
in questo dominio, diciamolo nettamente, o si comprende o non si comprende, e questo è tutto; questo può essere increscioso per i filosofi e altri profani, ma è così. In queste condizioni, è ben evidente che il sedicente “avversario” non potrà mai fare altro che dibattersi nel vuoto, e che tutte le sue argomentazioni saranno inevitabilmente false; non ci dispiace di certo che ci sia stata data l’occasione di constatarlo una volta di più»....

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